"I paesaggi culturali”
Bene delle singole comunità, strumento di crescita per una nuova pacifica e armonica convivenza
di Paola Di Felice

“Quando finirà l’Italia? E’ questa la domanda solo apparentemente paradossale che cominciano a porsi urbanisti, ambientalisti, statistici, quando riflettono sul ritmo accelerato con cui, nella confusione delle leggi e nell’incapacità di pianificare, andiamo consumando quel bene prezioso, limitato e irriproducibile che è il territorio”.

Con questa riflessione nel lontano novembre 1983, Antonio Cederna, il padre fondatore di Italia Nostra, dalla pagine de ”La Repubblica” commentava lo stato di fatto di una nazione che, freneticamente, andava distruggendo il territorio. Parole che oggi appaiono profetiche, non solo per quanto poi inevitabilmente è accaduto, sino all’attuale consapevolezza che l’intero pianeta è in pericolo, ma soprattutto perché in nuce contiene un concetto che andrebbe approfondito e meriterebbe una consapevole riflessione. Perché, per Antonio Cederna, il bene prezioso non è il singolo monumento, sito archeologico, opera d’arte, espressione artistica che insista in una determinata area geografica. Questo giacché un bene materiale o immateriale, isolato o considerato a sé, non può non essere oggetto di un racconto (del bene materiale e immateriale) che intenda narrare il passato, una storia, un lungo brano di vissuto. Perché è necessario contestualizzare il corso degli eventi, ricostruendo tutte le espressioni di un paesaggio antropizzato nel quale la comunità si riconosca e dal quale attinga per sviluppare il futuro.

E non a caso Cederna parla di territorio e non di paesaggio. È il luogo, infatti, modificato e trattato dalla presenza dell’uomo, a generare, attraverso “il tempo nelle mani”, quella cultura materiale e immateriale riconosciuta e protetta dalla singola comunità e decodificata quale patrimonio dell’intera umanità.

Si tratta, come è evidente, di un paesaggio come laboratorio di esperienze estetiche, cui l’antropologia ha destinato molteplici riflessioni tra le quali quella in base alla quale la “fisionomia di un luogo è determinata dalle caratteristiche fisiche, antropiche, biologiche e etniche”.

Già la Convenzione europea sul paesaggio recita “Paesaggio definisce una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalla loro interrelazioni”. Essa ha introdotto, così, nuove modalità di gestione del paesaggio nella sua dimensione territoriale. Gestione in termini di tutela finalizzata alla ben-essere della comunità che lo vive, contribuendo a far emergere le peculiarità culturali di un determinato ambiente nel quale, per secoli, l’uomo ha intrecciato esperienze storiche, socio-economiche e culturali, giungendo a trasformarsi in componente etico-culturale.

In tale ottica il paesaggio è portatore di una sua specifica identità che riflette la sensibilità estetica di chi lo abita e ne costituisce il prodotto sociale nel suo dinamico procedere modificato dalla presenza dell’uomo.

E questo è tanto vero nella misura in cui oggi percepiamo la presenza dell’essere umano anche nei punti più isolati, laddove la natura parrebbe essere la protagonista assoluta, se non si avvertisse la presenza più o meno discreta dell’uomo.

Perché la percezione del paesaggio appare esaltata da una evidente connessione tra natura e intervento dell’uomo sino a consolidare, da parte della comunità, la propria consapevolezza di identità nel rapporto tra espressioni culturali e ambiente che, nel tempo, ne determinano variazioni di significato e di senso.

Sicché appare inconciliabile la percezione di un paesaggio avulso dall’intervento dell’uomo se è vero che persino le più alte vette un tempo inviolate portano il segno della presenza dell’essere umano. Lassù, su quelle cime, le bandiere issate testimoniano l’avvenuta conquista di sommità inesplorate e l’incontro diretto con una natura sino a quel momento incontaminata.

Così come nell’Artico e nell’Antartide, terre per troppo tempo destinate all’isolamento dove oggi scienziati, affluiti da ogni parte del mondo, conducono esperimenti avanzati e rivoluzionari per azioni futuribili e indagini benefiche per l’uomo e il pianeta terra.

Perché il paesaggio non può prescindere dall’azione dell’uomo che ne scrive la storia, ne registra i mutamenti, l’accompagna nel suo procedere tra continue interazioni per le quali la musica ne coglie le voci e le trasforma in melodie; gli animali ne dettano le regole di antiche danze tribali; i frutti di una terra, ora matrigna ora generosa, ne condizionano sapori e profumi di cibi e bevande; materie prime e cave naturali di pietra ne influenzano tecniche edificatorie e prodotti scultorei; pigmenti naturali ne suggestionano interventi pittorici, dalle prime pitture rupestri alle rappresentazioni pittoriche più seducenti; il tatto esercitato su ruvide cortecce arboree, canne di fiume levigate, spinose efflorescenze ne riconosce le asperità, il calore, le intime vibrazioni.

Come giustamente è stato sottolineato da Giuliana Andreotti: “Il paesaggio non è soltanto qualcosa da costruire o tutelare, ma prima ancora qualcosa da riconoscere, percepire, ascoltare e descrivere. Il paesaggio è l’ipostasi, cioè la sostanza o la vera essenza della storia di un territorio”.

In tale ottica è impossibile negare che gli eventi storici, le pandemie, le calamità naturali abbiano influito e continuino ad influire sul paesaggio, a monte di un intervento dell’uomo sulla natura troppo spesso violento e rovinoso.

D’altronde dalla stessa Convenzione europea sul paesaggio emerge la natura antropica di quest’ultimo e in essa si fa esplicito riferimento al degrado generato dall’intervento dell’uomo sulla natura mediante attività di deforestazione, estrazione, costruzioni di infrastrutture, guerre e, non ultimo, un’azione di degrado ambientale.

Perciò l’esposizione di opere d’arte, tra seconda metà del’800 e del ‘900, e il nostro millennio, intende esplorare i complessi rapporti tra arte e natura, tra natura e individuo in grado di generare paesaggi i quali, prima di essere luoghi, sono “paesaggi culturali e mentali” che appartengono alla singola comunità e che di quella realtà sono testimoni e portatori.

La mostra, in tale ottica, attraverserà nel tempo e nello spazio una parte dell’Italia e, mentre ne coglierà le più arcaiche tradizioni, tramate da uno sfilacciarsi di abitudini e costumi che pure nel tempo è stato difficile eradicare, osserverà di questo spazio variazioni di luci, colori, ombre che, tra visioni e ricordi catartici e immaginifici, rendono la sostanza di un paesaggio ancestrale.

Così, tra le vette del Gran Sasso, i picchi appenninici; le albe e i tramonti in cui la luce protagonista attraversa magicamente la tavolozza cromatica di Gennaro Della Monica, sarà difficile non pensare che il vero protagonista sia l’artista, appollaiato tra le strette feritoie del Castello da lui costruito per meglio cogliere nell’intera vallata le vibrazioni di una natura tra alberi fronzuti e tesi, come mani imploranti, verso il cielo; ruscelli in corsa verso il fiume; vallate assolate dove l’essere umano è poco più di un puntino, geometrica infinitesimale consistenza in un mondo dalle mille forme.

E come non guardare le sue opere alla luce dell’anti-accademismo ottocentesco napoletano di cui è protagonista? Come non individuare nelle sue piccole tavole, dipinte en plein air, le pennellate e la luce catturata dai Barbizonniers e impressa sulla tela, a lui note per il racconto che gliene fa l’amico Giuseppe Palizzi durante il soggiorno di quest’ultimo a Parigi? E come non avvertire, nelle sue pennellate così “materiche”, il ricordo dei “macchiaioli” toscani e delle loro ampie campiture di colore con contrasti, tonali e chiaroscurali, tra macchia e forma?

E che dire delle opere di Carlo D’Aloisio che, nato a Vasto, accarezzata dal mare, in una realtà segnata dal luccichio di onde accavallantesi, tra barche rese in un’atmosfera sospesa, dipinge, nel ricordo di una giovinezza lì trascorsa e abbandonata a soli sedici anni per rincorrere nuove esperienze e nuovi sogni? Così “nel pensier (si) finge” la sua “terra amata” e l’avviluppa di dolci ricordi che sbiadiscono la realtà e accendono le ombre antiche. Siamo nel pieno Novecento, tra esperienze pittoriche di nuove generazioni ma la memoria ancora una volta sfrangia e sfilaccia i ricordi, avvolgendo oggetti e individui per restituire allo sguardo plaghe marine luminose e incandescenti attraverso una tavolozza che, spesso, s’incendia sull’onda della reminiscenza.

Vette, pianure, distese marine mentre la linea del tempo si riavvolge al suo fuso e il presente incalza con le sue contraddizioni, le sue violenze, i suoi nonsense, la sua perdita di memoria.

E tra i loro dipinti pollano improvvisamente, come per magia, le sculture di una donna, di Licia Galizia, rese “vitali” dall’intervento del compositore Michelangelo Lupone che vi intreccia la sua esperienza. E’ l’oggi che tende le braccia al futuro. Ad un futuro immaginato, sognato, interpretato mentre da quei corpi inerti pendono frammenti lanceolati. E ancora questo è paesaggio. Acqua, terra, sorgente. Ma è il paesaggio del terzo millennio. Delle sue contraddizioni, delle sue incoerenze, delle sue antinomie; dei disaccordi di un mondo globale frantumato in individualità; dei ricordi ancestrali di trasmigrazioni di massa che nei tempi hanno modificato, assieme all’individuo, il paesaggio dell’intero cosmo. E intanto i suoni, la melodia di strumenti musicali, il tocco, ora violento ora tenue, di una mano, rievocano, nella materia inerte, sensazioni e emozioni impetuose, travolgenti, violente o pacate, dolci e rassicuranti.

Così, nel passaggio assai ristretto ove domina la composizione “Mare oscuro”, volutamente “ingabbiato” in uno spazio quasi di risulta, la possibilità assai reale che si tocchino o si sfiorino i bordi, costringerà lo spettatore ad assistere all’agitarsi di quelle onde, sussultanti, sobbalzanti, oscillanti, tremanti, quasi scossi da una memoria troppo recente per essere dimenticata. E’ il Mare Mediterraneo, luogo di vita nei secoli, trasformatosi in spazio di morte. Simbolo di collegamento, relazioni, scambi tra popoli sin dai tempi più remoti; culla di antichissime civiltà e di creatività taumaturgica ridotta a custode di disperazione e morte.

Ma nelle volute contorte di quel mare in tempesta risorge lento e inesorabile il suono della vita! Rimbomba l’eco del suo passato, risuonano le voci di chi solcava quella distesa in pace e concordia.

E intanto tre opere, collocate a considerevole distanza in tre punti della nostra vecchia Europa, al suono di una viola, si muoveranno quasi d’intesa, in un’armonia concorde che avrà il compito di ammonire chi pensa che la discordia possa essere fonte di progresso e di vita. Qui a Strasburgo, a Parigi e a Teramo, mani di non vedenti “osserveranno” quelle opere e al loro tocco proveranno emozioni più struggenti e vitali di chi ha dimenticato di utilizzare, al pari degli altri sensi, il tatto, servendosi solo della vista.

Perciò l’esposizione prima che essere un omaggio all’arte vuole essere un’offerta di riconciliazione tra tradizione e post-modernismo; tra natura e individuo; tra paesaggi e comunità; tra razionalità e creatività. Perché è solo dalla concordia di questi opposti che acqua, aria, terra e fuoco, gli elementi primari pitagorici o empedoclei, di una natura spesso sconvolta, torneranno a dettare le regole di una pacifica e armonica convivenza.

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